Brave New Alps

L’eresia del “dohiger”

2010

In April 2010 we were invited by Unità di Crisi, “a research unit composed by communication designers, theorists and teachers, focused on the phenomenon of the global and permanent crisis” to contribute to the first issue of krisis magazine .

For our contribution to the identities issue we involved Dario Massimo, a journalist and writer from Franzensfeste-Fortezza we are friends with since Fortezza Open Archive. For this occasion Dario wrote a wonderful piece on the issue of identity and the concept of “dohiger” (a person who is ‘from here’) in relation to the history and the population of Franzensfeste-Fortezza, as a contribution both for krisis and for Fortezza Open Archive.

The image we contributed is a photograph of the 1921 joint strike of Italian and Austrian railway workers in Franzensfeste-Fortezza, which we took from the archive we set up back in 2008. “Incazziert”, an expression commonly used in South Tyrol meaning “angry”, is probably the best South-Tyrolean word that contains a mixture of Italian and German. It comes from the italian word “incazzato”.

 

Here (Italian only) Dario Massimo’s text, L’eresia del “dohiger”

C’è un modo in certe contrade del Sudtirolo di autodefinirsi, di chiedere e di rispondere se “sei uno di noi, uno di qui”. Non è ovunque eguale. In Val Venosta, dicono “dosiger”. Da noi si dice “dohiger” e forse è espressione un po’ più tedesca di altre: deriva da “do” (da = qui), e probabilmente da “her” o hier tirolesizzati e dunque vuol dire “di qui, originario di questo posto”.

Sono nato a Fortezza. All’inizio degli anni ’50. Sono nato a pochi metri dai cigolii spaventosi di centinaia di treni merci, di migliaia di vagoni sbattuti con colpi tremendi, giorno e notte, contro le paratie dei binari morti, contro i respingenti di altri vagoni, con cigolii e grida spaventose come quelle di maiali affamati, nonostante i quali ho sempre dormito saporitamente. Era quella una sorta di “ninnananna fortezzina”.

Dunque sono un “dohiger”, sono l’espressione più certa, ho l’esperienza e la mentalità del dohiger.

Sono nato in questo paese non-paese, alla periferia dell’Italia, immerso nella polvere di decine di nazioni diverse e catturato dalla ragnatela di altrettante regioni. Sono i retaggi dell’Impero austroungarico, con cognomi polacchi, ungheresi, austriaci e trentini, ai quali è andato a sovrapporsi uno strato di gente, come in una folle migrazione improvvisa, a cavallo del Secondo conflitto mondiale, di rovigotti, veronesi, lombardi della bassa, veneti e friulani.

Questi non avevano avuto il tempo materiale di capire esattamente dov’erano finiti, mandati dalle ferrovie con sullo sfondo l’idea dell’italianizzazione del Sudtirolo, mentre si preparava già l’altra ondata, quella dei meridionali degli anni ’80, dei famosi (allora) “articolisti”, che grazie appunto all’articolo 14 di una legge sul lavoro in ferrovia, varata per far fronte alla carenza di personale in Alto Adige dove nessuno, allora voleva più venire, consentiva a nugoli di poveri cristi che affollavano i dormitori del paese, le pensioncine dei paesi prospicienti alle stazioni ferroviarie e gli appartamentini arredati con mobili di terz’ordine, consentiva dicevamo di venire qui a lavorare, guadagnando di più con una cifra notevole sul ruolo paga, esentasse, concessa dall’articolo di cui sopra, di quei veronesi, rovigotti, friulani giunti trent’anni prima.

Stesso posto e stesso lavoro.

Motivo in più per quelli giunti trent’anni prima che si sentivano ormai parte di quello “sfigato” paese dal nome grigio e tremendo, che evocava guerra e muscoli e cannonate, motivo in più per mugugnare contro quegl’altri, quei “terroni sfaticati” giunti qui solo per quella paga altissima, troppo alta per giustificare quel poco che riuscivano a dare sul lavoro nella loro apparentemente perenne indolenza mediterranea.

Fortezza, allora non era un paese, non era una stazione ferroviaria, ma un paese-stazione, tutto riunito nelle attività, nel sociale, nella vita quotidiana, attorno al parco ferroviario e ai suoi edifici e ai suoi treni, con la gente proiettata in un vortice di regionalismi che si sono affannati, negli anni, a tentare di riempire (scontrandosi a volte anche malamente) un vuoto “nazionale” di cultura, di tradizioni, di dialetti.

Le interpretazioni migratorie di questo lembo d’Italia, “rubato” secondo alcuni, “riconquistato” secondo altri, potrebbero tuttavia produrre due versioni molto diverse della storia: l’una ancora saldamente nazionale nei suoi scopi, mentre l’altra potrebbe essere classificata come un’“internazionalizzazione” della storia locale tradotta in una prospettiva globale.

Tanto che a Fortezza, se mai si è parlato un dialetto italiano, esso fu (oggi non è più così, oggi si parla un italiano standard) una sorta di “swahili”, miscuglio sonoro ricco, ricchissimo di regionalismi e dagli accenti tutt’altro che consueti, (tanto per prendere un paragone linguistico da un paese che è stato sempre ed è ancor oggi un dedalo di nazionalità che segnano il culmine del caos e della precarietà) nel quale riescono però a mimetizzarsi e talvolta a prevalere i valori di zone lontane e magnifiche, di paesi-paesi, di culture e tradizioni diverse. Tutti importati. O quasi.

Perché interpretare la storia di Fortezza significa interpretare in certo qual modo il fenomeno dell’immigrazione e coniugarla con la storia del treno, dei primi binari, delle prime sbuffanti vaporiere, di quegli operai e dei loro successori che vennero importati quasi a forza dal Vorarlberg, dal Tirolo e da altre regioni dell’Impero austroungarico come alcune zone povere dell’Ungheria e della Cekia e della Moravia, per costruire l’ultimo tratto di strada ferrata tra Bolzano e Innsbruck e che poi furono fatti rimanere nei posti di lavoro più infimi, a ingrassare gli scambi, a fare i lampisti accendendo e curando le lampade ad acetilene per l’illuminazione, a manutenere i binari e le viti nelle traversine.

Fortezza, il più giovane paese del Sudtirolo, nasce così, a seguito della stazione e dello svincolo per la Pusteria.

Poste allora come “storiche” queste osservazioni, va da sè che i fortezzini veri, i “dohiger” dovrebbero essere quegli immigrati, o per meglio dire i pronipoti di quegli immigrati che vennero dal Vorarlberg e dal Tirolo, dalla Moravia e dalla Cekia.

La storia deve pur partire da un punto fisso, che però qui appare non esserci.

Perché dopo di loro venne quell’altra ondata, di italiani delle regioni povere del nord, e poi quella dei meridionali.

Di tutte le ondate qualcuno è rimasto impastandosi, nel fluire del tempo, con gli altri.

Fortezza, per la sua conformazione, per le sue instabili economie che allora, nel dopoguerra, comunque apparivano solidissime (…vai in ferrovia, posto sicuro, stipendio garantito e poi ti danno la “zona disagiata” e sono altri soldi e magari ti danno anche la casa in affitto……) non visse comunque mai l’ormai dimenticato disprezzo dei “terùn” .

Da noi mai e poi mai apparvero i cartelli sprezzanti che a Milano erano comuni …“palazzo signorile cerca custode portineria – astenersi se meridionali”.

D’altronde non ci sono mai stati palazzi signorili e il paese è caratterizzato ancor oggi dalla preponderanza di quei grandi casermoni, retaggio delle ferrovie asburgiche, trasformati e rinnovati nel corso di un paio di secoli di modifiche.

Così come allora, negli anni ’60 del secolo scorso, quelli della grande migrazione dal Sud, non c’erano i padroni di casa di Torino, di Milano. Oltretutto, nel paese non-paese dalle giovani origini mancavano anche i signorotti, i ricchi, quelli veri.

Cosa serve dunque per definirsi “fortezzino”? Basta esserci nato? E, chi ci è nato da immigrati può definirsi tale a pieno titolo? E chi è venuto dopo? Ha meno credibilità nell’autodefinizione, di questa sorta di autoproclamazione di “autoctonicità paesana” di chi è venuto prima?

Ma soprattutto, chi è venuto prima? Chi è quell’Adamo, chi è quella Eva che hanno dato le credenziali del fortezzino al nato in un luogo che ancora non si chiamava Fortezza?

Sino ad oggi, sia gli storici dei paesi riceventi che sono sempre stati mossi dalle loro storiografie nazionali a focalizzarsi sull’immigrazione in un singolo paese, il loro paese dunque o la loro regione, sia gli storici italianisti che la migrazione hanno tutti i motivi per leggerla come una complessa e globale rete di “catene” migratorie che si sono estese fuori d’Italia e vi son rientrate, per almeno due secoli nessuno ha mai tentato di “leggere” la storia di un “non-paese” dal punto di vista di un immigrato che però arriva a sentirsi “del luogo” perché è arrivato sì dopo di altri, ma questi nel frattempo sono scomparsi, mentre lui è giunto prima di altri ancora che dunque sono venuti dopo di lui. E ancora: esiste il “fortezzino” visto che è figlio di un “nonluogo” alla Marc Augè?

E allora ripartiamo daccapo: sono nato a Fortezza. All’inizio degli anni ’50. Sono nato a pochi metri dai cigolii spaventosi di centinaia di treni merci e viaggiatori. Sono nato in una stanzetta dalla cui finestra quei vagoni li si poteva quasi toccare. Sono nato in un appartamento dove la cucina guardava su un cortile. E tornando alle definizioni di Augè, quel cortile, che c’è ancora oggi, che vedo ancora quotidianamente aprendo semplicemente le finestre di cucina, pur con le modifiche, gli interventi e gli infelici cambiamenti che la mano di qualche intelligentone ha provocato, quel cortile era ed è addirittura un “non-nonluogo”. Nel senso di un “nonluogo” al quadrato.

Già, perché se il neologismo “nonluogo” definisce due concetti complementari ma assolutamente distinti, ponendo da una parte quegli spazi costruiti per un fine ben specifico (di trasporto, transito, commercio, tempo libero e svago) e dall’altra il rapporto che viene a crearsi fra gli individui e quegli stessi spazi, il nostro cortile dove io vivevo da ragazzo e dove vivo ancora oggi non fu costruito affatto per un fine specifico e non è riuscito mai, nonostante estemporanei tentativi di singoli individui, a creare un rapporto stabile e duraturo tra gli abitanti e se stesso.

Principalmente perché gli abitanti sono andati in massa come sono venuti e ne sono venuti altri che per il momento hanno deciso di rimanere, ma tra loro i giovani, quelli hanno già decretato di andare, andare, via, via da questo luogo senza sole e senza legami. Via da Fortezza con la quale non c’è rapporto stabile e duraturo. Via dal cortile con il quale la gente, la sua gente, ha creato un rapporto così labile, indefinito e fondamentalmente triste, da essere considerato peggiore di un uso tecnico, obbligato o meno.

Mi sono vantato da sempre di essere un fortezzino d.o.c. con convinzione, con tenacia, con amore, ma un giorno, un paio di settimane fa mi sono accorto di colpo di un’evidenza, di essere figlio di immigrati e dunque di conseguenza un immigrato anch’io, ma che lo “jus solis” che ho accampato inconsciamente dentro di me, funziona solo e solamente se è dentro nelle nostre menti, radicato e comunque evanescente come concetto, logico come tutte le cose radicate e invisibile come lo sono sia la logica e sia le radici.

Essere di Fortezza non significa dunque alcunché, come probabilmente non significa alcunché in un mondo, in un globo terracqueo di migranti, essere di un posto qualsiasi.

Complesso? Confuso? Bisogna spiegare, con una storia singola, un esempio valido. Come potrebbe essere questo:

Lei è morta a fine maggio del 2010. Si chiamava Frieda, aveva 78 anni e… sembrava un uomo. Ma questo è un particolare puramente estetico. Lo ripeto: si chiamava Frieda. Frieda Putzer.

La morte di Frieda ed i commenti in paese alla sua malattia, a quella bestia che si stava mangiando il suo stomaco, a quella frana del 2009 che l’aveva isolata per un mese e le impediva di scendere a valle e che (forse) le aveva impedito di presentarsi puntuale alla chemioterapia, lei bloccata lassù, in alto, senza ormai più vicini di casa, vicini di altitudine e solitudine, chè nei due altri masi di Riol non era ormai più rimasto nessuno con la scomparsa di Leopold;

la morte di Frieda, dicevo, ha consentito di rivelare, meglio di riportare in primo piano, una cosa che stava sotto gli occhi di tutti, che tutti sapevano ma di cui nessuno parlava, e che fa parte di quella logica e di quelle radici invisibili che citavo pocanzi.

“Frieda della montagna”, la conoscevo bene.

La conoscevo bene, perché era stata mia vicina di casa. Lo era stata quando si era sposata con l’idraulico delle Ferrovie dello Stato ed era venuta a vivere in uno di quei nostri casermoni, che circondavano il cortile delle case ferrovieri, il nostro mondo di bambini che erano tutti italiani o quasi.

Frieda, a quella comoda casa ferrovieri abitata per alcuni anni, quando aveva sposato Franz Agraiter l’idraulico delle ferrovie (e allora un bel po’ di treni viaggiavano ancora trainati dalle locomotive a vapore che di acqua ne ingoiavano a decine di metri cubi, come cammelli di ferro e acciaio) Frieda dicevo, aveva preferito tornare, non appena era morto suo marito di vent’anni più vecchio di lei al suo maso natale, sù, in alto, a mille e 200 metri di quota, dove per falciare l’erba doveva indossare i ramponi da ghiaccio, per non scivolare sul ripido pendio dei prati.

Era tornata in quel maso, che non era più suo, perché da quasi un secolo era divenuto proprietà dell’Abbazia di Novacella, ma che da sempre la sua famiglia lo aveva abitato.

Era più vecchio quel maso, molto più vecchio di Fortezza stessa, di quel paese, sorto ai piedi della montagna di Riol, che le tavole antiche del fienile, tagliate dagli antichi abeti, la calce e il cemento del Putzerhof avevano visto, dall’alto, sorgere pian piano. Così Frieda che si tagliava i capelli “alla umberta”, Frieda che fumava tenendo la “cicca”, la sigaretta o il suo mozzicone tra il pollice e l’indice come fanno i montanari e gli uomini di fatica e non tra l’indice e il medio come fanno i “fighetti”, gli impiegati, Frieda e i silenzi della montagna vissuti in quei pantaloni di fustagno, sorretti dagli invisibili ma ben presenti fianchi femminili coi quali aveva partorito due figli, Frieda dicevo, era “più fortezzina” di me, più fortezzina degli altri tedeschi, di tutti gli altri fortezzini.

Lei era una vera “dohiger”.

Le origini della sua famiglia erano in alto, lì sù sulla montagna, antiche, affondate nella storia, nei secoli. Lei che amava vivere “selvaggiamente” come aveva affermato qualche suo detrattore, con la tonaca di qualche santo portata a sproposito, lei che aveva deciso di vivere i suoi silenzi, le sue ansie, i suoi turbamenti, i suoi dubbi, i suoi mali, le sue delusioni da sola, in compagnia dei suoi cani, più fedeli dei figli e dei parenti e degli amici, dei suoi polli che zampettavano su cassapanche dalle date antiche, rinascimentali, cassapanche di “arte povera” e tanto preziose per la mentalità di quei “fighetti” che tengon la sigaretta tra l’indice e il medio, lei Frieda, che aveva rifiutato l’idea di essere fortezzina di fondovalle è rimasta lassù, in alto, fino alla fine.

L’ha trovata un giovane amico, di quel gruppo di ragazzi che amano la montagna, le solitudini e i cieli chiari, che era andato a portarle una borsa di nylon piena di medicinali per tirare avanti.

L’ha trovata seduta in poltrona, gli occhi socchiusi che ancora guardavano quella parete irrorata di sangue vomitato qualche ora prima, quando il male come in un’esplosione vulcanica, le ha dato il colpo di grazia.

Lei è morta come i bajuvari, forse prima di loro i celti, magari gli isarci, che avevano abitato questo pezzo di Val d’Isarco prima di noi, di lei, degli altri, anche di quelli, frati con la tonaca da santo, che le avevano per anni negato la tranquillità minacciando di mandarla via, rivendicando il potere temporale e dunque possessori dell’ipoteca prima e della casa, del maso Putzer, poi.

Lei era una “dohiger”. Forse. Comunque più dohiger di me, di noi.

Noi, in fondo, siamo di quelli in basso, quelli che hanno abitato il fondovalle progressivamente, partendo dalla costruzione della fortezza asburgica, iniziata nel 1833 e continuando con la costruzione della ferrovia, nel 1865 e anni seguenti.

A fronte di questa storia, della storia di Frieda e quella nostra, soprattutto della mia, di “dohiger” o presunto tale, sono necessari alcuni pensieri:

che l’Italia e con lei il Sudtirolo, sia diventata (o stia lentamente diventando) paese mutietnico con molto ritardo rispetto al Regno Unito, alla Francia, all’Olanda e non essendoci abituata va creando facili sentenze, sputando motti e macinando rancori contro chiunque le sembri estraneo è un dato di fatto. Per qualche decennio il paese aveva menato vanto della sua tolleranza, commuovendosi per le brutte storie di “razzismo di quelli là”, in Sudafrica, in Alabama, il Ku Klux Klan, Nelson Mandela.

Oggi che in questo nonluogo al quadrato arrivano nuovi migranti, si tende a cambiare idea, a cancellare buoni propositi.

Ma è anche colpa nostra. Non abbiamo saputo trasformare Fortezza in un luogo. Tutti l’hanno tenuta come un nonluogo. Degli ultimi sindaci che il paese ha avuto solo uno ha abitato e abita ancora in paese. A conferma che per abitare gli altri hanno scelto un luogo. Per comandare il nonluogo al quadrato.

E i nonluoghi, anche quelli di Marc Augè sono i preferiti dai nuovi migranti. Alla domenica, d’inverno, nei centri commerciali fa più caldo. A Fortezza, le case costano meno che altrove. Perché è un nonluogo.

Dire di essere dohiger in un nonluogo è un’eresia.

 

Dario Massimo is a journalist, writer and historicist from Franzensfeste-Fortezza. His latest books include Fiori di ghiaccio alle finestre. Piccola antologia di Fortezza (Weger, 2010), La fortezza (Weger, 2007) and Trentino Alto Adige. Un’identità di confine (White Star, 2002).

The text L’eresia del “dohiger” is part of the project Fortezza Open Archive Franzensfeste, initiated by Brave New Alps in collaboration with the municipality of Franzensfeste-Fortezza for Manifesta 7, the European biennial of contemporary art (Trentino-South-Tyrol, June-November 2008)

www.fortezzaopenarchive.net